Una nuova quotidianità
E’ passata un’altra settimana qui a Livingstone, tanto ancora da esplorare e da conoscere ma pian piano anche qui si sta creando una quotidianità di orari, luoghi, visi e percorsi. Dall’Italia siamo tutti abituati a pensare a chi sta fuori in missione come un astronauta sospeso in un’altra dimensione spazio temporale. “Cosa mangi?”, “Come sono?”, “Come ti trovi?”, “E’ pericoloso?”: sono le solite domande di familiari e amici, ma è difficile spiegare che, tolto l’adattamento iniziale tra facce nuove, tagli di corrente e mosquitos, anche qui si stia delineando una nuova routine. Ogni mattina mi sveglio alle 7, faccio colazione, ultimo il packet lunch e dopo una pasticca di polase sono pronta ad affrontare mezz’oretta di camminata sotto il sole battente con l’immancabile zainetto versione Marry Poppins! 3 litri d’acqua, saggiamente lasciata in freezer fino all’ultimo sperando che, nonostante l’assenza di corrente, possa mantenere più a lungo possibile una temperatura inferiore ai 30 gradi, 3kg di computer, pranzo e l’immancabile macchinetta fotografica. La borsa delle grandi occasioni insomma! Per le 9 arrivo al centro e prendo posto nella tailoring di YCTC. Tavolone, sgabello e attorno un tripudio di coloratissime stoffe africane (Citengue): è questo il mio nuovo ufficio! Prendo posto e già parto alla volta della carpenteria del centro della quale, pian piano, dovrei ritagliarmi un ruolo da supervisore. “Mwaca buanji!”* saluto Benjamin (il supervisore), Mabunga, Super e Rosevelt che sono, o almeno dovrebbero, essere all’opera già dalle 8 tra rumori di piallatrici e vari altri macchinari (dei quali ancora ignoro i nomi) inghiottiti da una nube di trucioli del colore del deserto.
E’ il primo vero lunedì di lavoro e decido, dopo un’osservazione di una settimana, alla Tata Lucia per gli appassionati di SOS Tata, di prendere Benjamin in disparte e, dopo una breve introduzione “alla consulente”, dove gli spiego l’importanza di una pianificazione settimanale, inizio col suo aiuto a stilare una breve lista delle attività e delle mansioni del team. Lo rimetto giù in un ben più attraente formato excel, lo stampo, lo attacchiamo in bacheca e mi raccomando con lui di condividerlo col team. Mi sento realizzata, “è stato più facile del previsto comunicargli l’importanza della pianificazione! E’ fatta!” mi dico. Mi sono anche lanciata in discorsi ben strutturati per spiegare l’importanza di un intervento di riorganizzazione e il mio ruolo lì, e ho anche trovato un super slogan che suonava proprio bene “is not just my goal, it’s ours!”. “Che soddisfazioni! Che leader!” mi dico…ma bastano due giorni per smorzare ogni entusiasmo. Per carità, magari la performance sarà stata anche una tra le migliori, ma non basta purtroppo. Il lavoro è in ritardo di 2 giorni, mancano materiali che importano dal Sud Africa, ci sono 45 gradi e i ragazzi arrancano e inizio a notare che la mia presenza nello workshop inizia ad essere di troppo. Si sentono troppo osservati e inizio a pensare che questo possa diventare controproducente. E’ giovedì, strappo il primo weekly plan e si ricomincia. Va trovato un altro linguaggio, va osservato di più, va centellinata con cura la presenza in falegnameria, vanno capite le difficoltà e le peculiarità africane sia culturali che banalmente logistiche. Sembrava già tutto così chiaro e tracciato ma era solo un miraggio. Il viaggio è solo iniziato, va trovata una mappa, una bussola, un vocabolario, un linguaggio e un approccio condiviso. La distanza dall’obiettivo si fa sempre più ampia. Il bello è forse proprio quello, mettere PAUSA a quello che fino adesso sono sempre stata, a tutto quello che con gli anni in consulenza è diventato il mio metodo di lavoro e aprire una finestra su un nuovo capitolo di vita. Aprire occhi e orecchie, chiudere la bocca ed essere pronta come un ragazzino al primo giorno di liceo ad ascoltare, osservare e iniziare ad adattarsi ad un nuovo contesto. La frenesia e l’iperattività europea fermentano dentro, ma ho l’Africa che con una calda pacca sulla spalla mi chiede di aspettare.
Sarà dura, ma anche questo è parte del viaggio. Spogliarsi di vecchie strutture ed essere pronti quando sarà il momento a rivestirsi solo del necessario. E’ qui che la routine che pensavo di aver iniziato a vivere si infrange e le domande di parenti e amici assumono adesso un significato più profondo e mi aiutano a realizzare ancora di più l’unicità di ciò che sto vivendo.
Voglio che sia così la mia esperienza qui: una pausa e un’opportunità per azzerare il conta chilometri, caricare di nuovo la macchina e ricominciare con maggiore consapevolezza ad attraversare la vita.
*buongiorno in Nyanja (lingua locale)