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Punto e a capo o punto e d’accapo: questo è il dilemma

Livingstone, 5 agosto 2016

Punto e a capo o punto e d’accapo?!…un modo di dire molto inflazionato ma dietro al quale si nasconde grande saggezza. Poni un punto quando il periodo risulta di senso compiuto. Quando il messaggio è stato comunicato. Quando per quel momento non hai più niente da aggiungere. La vera difficoltà sta nel porre quel punto. Gesto apparentemente banale ma al contrario pieno di grande coraggio. E’ così per me per esempio, i miei periodi sono impetuosi, confusionari e chiedono spazio. La mia vita, le mie ansie, i miei pensieri non conoscono virgole o punti ma solo puntini di sospensione. E’ proprio questo che rende un periodo incompleto: privarlo di una degna fine. Un acquazzone di complementi che ti inzuppa la mente e il corpo e ti lascia fiacco, debole e infreddolito a fine giornata. Come può un punto cambiare il verso e il contenuto dei miei pensieri. Come può un punto darmi quello spazio per respirare e prendere una tregua? La punta della matita viene appoggiata delicatamente sul foglio ma quanto ne consegue è più significativo di tante parole. Il punto insegna a porre dei confini. Ti chiede di ordinare e selezionare all’interno di due paletti un flusso di emozioni, paure e sensazioni. Io invece mi adagio sulle rotonde curve dei puntini di sospensione e lì mi fermo, prendo una pausa e si ricomincia. Sono anni che vado avanti così, e seppure apprezzo il calore e la sicurezza fornita dai tanto amati puntini di sospensione, voglio imparare a mettere in modo più marcato dei singoli punti. Punti ai miei pensieri, punti alle mie ansie, punti al pregiudizio, punti al giudizio degli altri e un ultimo punto alla mia disciplina. Sembra così facile ma sistematicamente, esattamente nello stesso istante in cui mi sforzo di mettere il tanto agognato punto, ecco che mi ritrovo di fronte ad un bivio. E adesso? Seguiranno tanti altri periodi ordinati che ricalcheranno quanto già descritto o è giunta l’ora di andare a capo?

Ricordo che prima di partire per questo anno in Zambia, durante il corso di formazione pre partenza abbiamo incontrato un missionario che ha vissuto in Africa 30 anni. Ha iniziato il suo intervento dicendo: “chi sta in Africa una settimana ritorna e scrive un libro, chi sta in Africa una vita limiterà il suo racconto a qualche riga”. Una frase alla quale non ho prestato subito attenzione ma che col passare dei mesi è tornata a riecheggiare nelle mie orecchie. Solo adesso mi rendo conto di essere stata vittima dello stesso fenomeno. All’inizio il sabato era la giornata dedicata al resoconto e alla condivisione settimanale sul mio blog. Ogni sera, intorno alle 19,30, avevo l’appuntamento fisso su whats app con familiari e amici mentre adesso solo grandi silenzi, poche chiamate e poche condivisioni. L’ intensità nel vivere tutti i momenti è adesso meno sorprendete ma più profonda. Colgo nuove sfumature e assumo altre prospettive e stimoli di apprendimento e di riflessione su tutto quello che vivo. Ora capisco le parole del missionario e il perché sostenesse che la capacità di racconto è inversamente proporzionale al tempo trascorso in questi luoghi. All’inizio ti senti reporter, esploratore e hai bisogno di condividere e di aprire una finestra su quello che vivi e che vedi. Dopo qualche mese il quadro che ti trovi di fronte non è più lo stesso, noti le diverse pennellate, le diverse gradazioni di colore e i giochi di luce. E’ per quello che smetti di scrivere, perché elaborare questi nuovi input richiede più tempo. Vanno uniti i puntini per riuscire a coglierne l’immagine complessiva. Le peculiarità di una diversa cultura, la lingua, i suoi suoni, le consuetudini e i costumi di questa terra che ormai hanno iniziato a fare parte della mia quotidianità e del mio modo di relazionarmi con gli altri. Ho voglia però di fare uno sforzo e raccontare la mia attuale percezione e comprensione della magia che ho vissuto in questi 10 mesi che, se a tratti ti indispone e ti irrita, per la maggior parte continua ancora a intenerirti e renderti nostalgica al solo pensiero della ormai imminente fine. E’ quindi con un breve passaggio che racconta l’ultima settima vissuta che ritorno ad aprire una finestra sulla mia quotidianità zambiana.

 

Riflessioni quotidiane

Livingstone, 07 agosto 2016

 

Ti svegli la mattina, doccia colazione e cerchi di prepararti fisicamente alle difficoltà della giornata. La fatica qui non è tanto legata al lavoro fisico, nonostante la salutare passeggiata del mattino, ma è figlia della frustrazione con la quale faccio i conti quasi ogni giorno. Devi metterti in testa che nessuno o solo pochissimi condividono qui il tuo commitment. Sei tu a doverli inseguire, a ricordare loro le attività da portare a termine. Sei tu l’unica a riconoscere e a predicare l’importanza di pianificare, di controllare e di focalizzarsi. A tratti ti senti sola nella lotta quotidiana soprattutto quando l’unica cosa che riesci ad osservare è un evidente ammutinamento.  Qui tutto ancora sembra allo sbaraglio, a volte cerco di cambiare prospettiva e rimuovere le lenti dell’efficienza europea e cercare di intravedere un ordine in tutto ciò che a prima vista sembra pura entropia. Ormai sono passati più di 10 mesi e sto iniziando a convincermi che probabilmente la sbagliata sono solo io con tutte le mie pretese e i miei schemi. Ormai il mio intervento in falegnameria si sta limitando solo a rapidi e veloci suggerimenti che cerco di comunicare nei pochi ritagli di tempo e soprattutto di attenzione che mi vengono dedicati. Dopo mesi di lotte e stanchezza accumulata a tratti purtroppo mi trovo a voler gettare la spugna, mettere le cuffiette alle orecchie e chiudermi nel mio mondo. Fa male quando vedi che il messaggio e l’aiuto che cerchi di dargli, dosando rigorosamente e minuziosamente dolcezza, risolutezza e ironia, interessa solo a te. Sale la frustrazione, il nervosismo e ti trovi davanti ad un pc a scalpitare mentre la coalizione antagonista sembra procedere con una condivisa lentezza e disordine. Come si fa? Cosa e dove sbaglio? È il mio tentativo di supporto apprezzato e auspicabile o si tratta solo di perpetuare e imporre schemi che non gli appartengono? Qui il lavoro dovrebbe partire molto più da lontano iniziando a condividere una base comune riguardante la gestione di un’attività produttiva, dove le tempistiche, la pianificazione e la cura del cliente debbano rappresentare le linee guida giornaliere. Ad adesso la mia conclusione è quella di non proporre ma arginare i danni con la consapevolezza che forse c’è qualcosa che, schiacciata dalle mie abitudini e dagli schemi prettamente europei, continua a sfuggirmi. Per quello, mi isolo, metto le mie cuffiette e cerco di giocare a rompere ogni schema e immaginare che anche iniziando a guardare il mondo a testa in giù, anche quello, dopo un po’, inizierebbe ad avere un senso. Poi all’improvviso, il mio collega di banco mi chiama con uno dei tanti soprannomi che mi ha affibbiato e mi fa una battuta e un sorriso e ancora una volta mi ricordo il perché ho deciso di fare questa esperienza. La tensione si abbassa, i polmoni si riempiono di aria pulita e il cuore ricomincia a battere…e mi rendo conto che sono già di nuovo più che pronta ad un nuovo combattimento.

Due cose ci salvano nella vita: amare e ridere. Se ne avete una va bene. Se le avete tutte e due siete invincibili” cit. Tarun Tejpal.

 

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